giovedì 29 aprile 2010

giovedì 15 aprile 2010

Jet lag

Per continuare a rivendicare il diritto di poter essere diversi, pecore nere confuse e pure felici alcune volte.
Rubo da Navi in bottiglia.

E di nuovo voli a New York. Atterri, ti sistemi e senti la vocina che ti dice: non ti addormentare, non darla vinta al jet lag, resisti. Poi ti chiedi: e perché? Perché non dormire dalle 17 alle 2 poi si vedrà. Che c'è di male nel jet lag?

Jet lag significa stare a occhi aperti mentre gli altri dormono. Continuare a credere in certe idee senza più credere negli uomini che le incarnano (ma mica perdi la fede in dio per colpa dei preti pedofili). Significa scrivere e non leggere quasi più (perché molti giornali non li capisci e molti altri li capisci fin troppo, molti libri sono stupidi e molti troppo furbi, e tutto è troppo).

Jet lag significa bestemmiare in qualunque chiesa e pensare che oddio un governo Di Pietro no, le trasmissioni di Santoro lui le deve poter fare e tu poter non guardare, che Luttazzi ha la sindrome di Tourette e non bisognerebbe riderne, che troppi appelli, troppe denunce, troppi allarmi spengono tutto. E al momento giusto mancherà l'energia.

Jet lag è continuare a chiamarsi fuori quando ti dicono che è vietato, perché chi mette divieti è comunque potere, è essere spietati nelle analisi e indulgenti nelle conclusioni, giudicare ma fino a prova contraria e appello, continuare a studiare quando tutti hanno chiuso i libri. E' essere se stessi in un modo diverso, che si è imparato, perché solo gli imbecilli nascono geni.

Gabriele Romagnoli

Foto di Babstips

mercoledì 7 aprile 2010

La tua vita è la tua vita



Il Cuore che ride

La tua vita è la tua vita.
non lasciare che le batoste la sbattano nella cantina del...l’arrendevolezza.
stai in guardia.
ci sono delle uscite.
da qualche parte c’è luce.
forse non sarà una gran luce ma la vince sulle tenebre.
stai in guardia.
gli dei ti offriranno delle occasioni.
riconoscile, afferrale.
non puoi sconfiggere la morte ma puoi sconfiggere la morte in vita, qualche volta.
e più impari a farlo di frequente, più luce ci sarà.
la tua vita è la tua vita.
sappilo finché ce l’hai.
tu sei meraviglioso gli dei aspettano di compiacersi in te.

Charles Bukowski

Foto

giovedì 1 aprile 2010

Metà, meta e cammino

"Riaprire la ferita, farla sanguinare ancora per una guarigione definitiva.
L'estate sta finendo, guardo un nuovo giorno che comincia e nella mente gli ingranaggi girano.
Le amate e maledette parole che consumiamo, sciupiamo, versiamo, tratteniamo e liberiamo, mi hanno fatto compagnia questa notte.
Le ombre oscure del mio carattere hanno infierito e colpito. Mi sento un soldato in trincea, stordito ma vivo, nonostante tutto. Però senza illusioni e speranze.
Non credo più e questo e' il dolore. Quella morsa che mi si stringe al petto. Tu puoi capirlo? Non lo so. Certi giorni penso di si, altri guardandoti invidio il tuo entusiasmo.
Perché hai ancora voglia di progettare, di pensare di cambiare casa, lavoro, città. Poi però - come ieri- ti osservo mentre non riesci ad abbandonare un ricordo e allora e' come se vedere riflessa l'immagine di qualcosa che ti appartiene, su qualcuno a cui vuoi bene, sia ancora più difficile da sopportare. Non basta dirsi che non ci meritavano, bisogna ammettere ancora d'aver fallito, d’essersi illusi. Questo mi sta annientando. Come se cadere, sbagliare e rialzarsi fosse ciò che mi riesce meglio, ma non ho più voglia di sapere che posso ricominciare. Vorrei mantenere, vorrei non dover ricostruire fondamenta. Sono stanca, ho chiesto a me stessa l'impossibile e anche di più. Vorrei un premio, fosse solo una pacca sulla spalla e un incoraggiamento. Qualcuno che mi dica soltanto: Non stai sbagliando.

E poi mi fermo, espiro, respiro e la lucidità torna. Il giorno allontana le ombre e dissolve quella notte che partorisce pensieri come il travaglio di una giovane madre. Spesso giorno e notte si uniscono in orizzonti bugiardi. Più infinito meno infinito, secondo la speranza del momento.

Questa è la domanda oggi: “Qual è la speranza del momento?”Dovrò decidermi a rispondere e così inoltro a te, perché mi faccia da coscienza, perché condivida con me. E negli intricati percorsi delle nostre conversazioni troveremo sempre un nodo da dipanare, un parallelismo su cui riflettere e un dubbio che non vorremmo mai avere."


Per lei scrivere lettere era un bisogno, lo era la scrittura in genere. Il suo modo di fare ordine in armadi pieni di vestiti, visi e oggetti, colorati, fiorati, a volte tinta unita. Dove tutto si confondeva, mischiato a foglie, fiori, residui di cibo, voci e pezzi di ricordi attaccati con così tanta ostinazione da farle paura.

Come se ogni singolo dettaglio avesse dentro quel passato da cui era incapace – o quasi- di liberarsi. Nel bene e nel male. Perché – noiosa e ripetitiva- diceva sempre: siamo oggi anche grazie a chi siamo stati e chi abbiamo incontrato.

I suoi “ipotetici” armadi della mente erano perennemente aperti, li riordinava a scadenze ritmiche. Cercava di buttare, conservare e riutilizzare. Come quei vestiti vintage che a un certo punto tornano di moda. Perché esiste sempre una parola, un oggetto, un suono, un profumo o un sapore capace di evocare. Come chiudere gli occhi e ricordare un sogno, ma a livello cosciente. Ritorna l’ambientazione, puoi distinguere i colori, la stoffa del copriletto, il maglione che indossavi tu e la camicia di chi era con te.

Lo sguardo, gli occhi, le cattiverie e le parole dolci. Le lacrime di due innamorati che non riescono a lasciarsi e quelle di quando dici addio a qualcuno che ami davanti alla sua tomba. Ricompaiono le parole, anche quando sono consapevoli che non serviranno, consce che è inutile offrire un cerotto quando la ferita sanguina a fiotti. E malgrado questa sproporzione, le parole continuavano a piacerle. Le erano utili, la distraevano. Erano formidabili, preferibili mille volte al silenzio, anche se ci sono dei silenzi così espliciti.

Lei ha sempre preferito comunque le parole. Le assapora con gusto: quando la lasciano perplessa e quando la fanno riflettere; quando la fanno ridere e quando la fanno piangere; quando la lasciano interdetta e quando la fanno stare con il fiato sul collo.

Le parole le ama, le porta sempre addosso. Una volta aveva letto una frase: “La parola parlata è sporca. È inquinata dall’inganno della seduzione. Invece la parola scritta è pulita”. Le somigliava molto. Perché solo con quella scritta riusciva realmente a comunicare, a descriversi, ad essere pura essenza.

Così scriveva lettere, o con l’avvento della tecnologia, lunghe e mail. Non per tutti, perché con gli anni aveva imparato a selezionare, cercando di essere più attenta, di non sprecare le amate parole, verso chi non sarebbe stato in grado di capire. Ne aveva sprecato tanto di tempo, energie e amore, a tutti i livelli. Tanto di quell’amore sprecato che non aveva potuto preservare, ma in fondo forse era giusto così.

Di certo non poteva definirsi una avara, anzi per lei il particolare talento del donare, dell’essere generosi, soprattutto nella sensibilità, nei modi, nelle attenzioni verso gli altri e nel prendersi cura era tratto distintivo. Era quello che ricercava negli sguardi che voleva intorno. Ci era riuscita, aveva sbagliato molte volte, immaginando doti e qualità che desiderava attribuire a qualcuno e continuava a scommettere.

Un giorno si era svegliata e si era detta: “Oggi comincia il resto della mia vita”. E’ così che cominciano le vite dei sopravvissuti. Come il prima e dopo Cristo scandisce le epoche della Storia. E si va avanti, un passo dopo l’altro. Meccanicamente. Piano piano tutto il resto. E i resti hanno alcuni vantaggi: dai resti non ci aspetta niente. Tutto sembra troppo, qualsiasi cosa è un regalo inatteso. Il resto può arrivare soltanto quando ritieni di aver vissuto ( non importa se per breve o lungo tempo) quello che maggiormente desideravi e ti rimane quello che, in teoria, non ti ha mai interessato particolarmente.

E d’un tratto ecco il resto. Puoi buttarlo via o decidere di attraversare la giornata alla meglio. Un passo dopo l’altro.

Nel resto c’era la scrittura, usata come medicamento per l’anima, con un pudore estremo. Qualcosa in cui non aveva forse mai creduto abbastanza, o meglio, in cui credeva così tanto da non rischiare. Perché troppo esigente, perfezionista.

Così inventava storie per superare, per raccontare, per trovare una via diversa, forse per sedurre, sicuramente per amare. Ogni volta avrebbe potuto darsi una risposta diversa, quello che non sarebbe cambiato era il dono curativo che questo aveva su di lei.

Ora aveva dinanzi un nuovo racconto. Voleva pensare, parlare e raccontare da uomo, voleva capire le nebbie e la confusione, l’incapacità e l’immaturità.

E l’idea, lo spunto narrativo le era venuto così, da una pubblicità.

Capitolo 1 o solo racconto breve.

“Si chiese perché i cartelloni pubblicitari avessero così tanta presa su di lui.

Era come se qualcuno gli lanciasse delle frasi per invitarlo a riflettere. L’ultima volta era un gigantesco sei per tre con una scritta: “Non rimpiangere domani di non aver giocato oggi”. Il lotto che dava lezioni sulla sua vita.

E adesso eccolo davanti ad un camion che distribuiva prodotti GS, una bellissima foto con delle arance e poi “ Sa cosa voglio”.

Che bella questa sicurezza. Avrebbe voluto urlarla a tutti, avrebbe solo cambiato le iniziali, mettendo le sue: sa cosa voglio.

Netto e deciso.

Il problema era che lui non aveva la più pallida idea al momento di ciò che voleva.

Nemmeno il suo nome era più certo. Lo chiamavano Picchio, e in molti invece preferivano usare il cognome.

Così anche la banalità di sapere chi siamo semplicemente pronunziando il proprio nome era svanita.

Certi giorni sembrava che tutto fosse svanito. Dove stava andando?

Chi era? Dov’erano quei sogni che aveva cullato per tanto tempo?

Gli sembrava di assaggiare la vita ma non sapeva se la stesse vivendo.

Arrancava sui suoi passi, sui pensieri contorti, sulle negazioni, sulla ricerca di qualcosa d’indefinito. Narciso, incostante, preda di veloci e fuggenti entusiasmi, la lista dei difetti era lunga, a contarla ci avrebbe messo molto.”

Il personaggio le era venuto spontaneo, avrebbe potuto dipingerlo - se fosse stata brava a farlo - occhi, ciglia, mani, sorriso e volto stizzito. Ne conosceva sfumature e difetti e purtroppo lo aveva amato un uomo così, anche o soprattutto per quei difetti. Di quegli uomini bambini, che non scopri immediatamente, che sono viziati e capricciosi, diversi da te, eppure simili. Dove un gesto e un altro ancora avevano fatto cadere barriere e timori e si era ritrovata esposta. Volutamente, folle a tal punto da pensare di poter superare il suo passato, di essere più forte di tutto. Invece non si può mai vincere contro il tempo. Deve avere il suo corso. Ognuno supera le sue ferite. E come aveva scritto oggi nella lettera al suo compagno di parole: a volte le devi riaprire per permettere loro di guarire.

Oggi avrebbe voluto ritrovare la speranza, rispondere con schiettezza alla domanda che gli aveva posto. Così mentre la mente vagava, il racconto cercava i suoi fili, il lavoro rubava parte del tempo, trovava anche un minuto per sfogliare un giornale.

Una rubrica, qualcosa che leggeva sempre, anche qui una domanda, una di quelle che fanno scattare dibattiti vivaci e partecipati: “ C’è qualcuno o qualcosa di cui si può essere quasi costantemente innamorati e senza danni? E di chi o cosa, secondo voi?”

Mille le risposte, due i filoni: chi vede nella passione per il lavoro, nella cura del sé, nella gioia serena delle piccole cose di ogni giorno una possibilità di surrogato non nocivo dell’amore, una specie di amore decaffeinato; e chi invece pensa che no, che non ci possa essere amore senza danno e senza rischio, senza quel senso di mancanza, di sbilanciamento, di essere tagliati a metà. Lo diceva anche Philiph Roth rovesciando il mito del Simposio di Platone, secondo il quale in origine eravamo un tutt’uno con altro e poi siamo stati separati, due semisfere che non smettono mai di cercarsi e nell’amore si ritrovano. Roth obietta, altro che rifare l’intero, l’amore ti taglia a metà, e quella metà di te che non è più tua è nelle mani dell’altro, che ne fa quello che vuole. Il punto è tutto qui, in come si vede questa cosa. Se la s’intende come condizione miserabile o sublime. Se in fondo al baratro di questo bisogno radicale, penoso e incolmabile dell’altro c’è l’inferno o piuttosto Dio. Se di inferno si tratta, è un inferno che le donne hanno sempre cercato. Forse agli uomini piace di meno. Quel sentirsi protese, fuori di sé, intere solo se divise è da sempre figura della letteratura femminile. I confini del proprio Io si disfano e il disfarsi è percepito come salvezza. L’equilibrio ritrovato di stare sull’orlo dell’abisso, su una gamba sola, tenendo la mano verso quello che tu ami. Stava riflettendo a voce alta nella sua testa: “Io direi di sì, che si può cercare di essere costantemente innamorati, e senza danni, anzi con un guadagno. Che la meta è il cammino, come spesso capita, e non ce ne accorgiamo. Che l’amore, e cioè il bene, per qualcuno forse anche Dio, sta proprio nella costante e instancabile ricerca dell’amore.”

Ora aveva la risposta alla domanda della lettera: il premio è nella ricerca.

La speranza è nella ricerca. E lei era sempre stata una viaggiatrice curiosa, attenta al connubio tra meta e cammino.