giovedì 31 luglio 2008

Poesia dorsale

foto di uomo di atlantide

mercoledì 23 luglio 2008

I calci di rigore




La vita si fa camminando senza cartina e non c’è modo di tornare indietro.
La sua tata glielo ripeteva sempre, con la sua saggezza e il caldo abbraccio a cui tornare. Chiudendo gli occhi poteva ancora sentire il profumo di borotalco sulla sua pelle.
Quando era piccola sapeva che nulla poteva accaderle se correva a rifugiarsi da Adele.
L’aveva rimpianta per anni, ora che non c’era più, non aveva nessuno da cui andare.
Era un anima solitaria, più di quanto fosse stata da bambina. Si muoveva nel mondo con la sua risata schietta, il tono di voce alto e occhi che fulminavano.
Erano il suo patrimonio, oltre al cervello e alle parole. Con quelle si manteneva. Provando a scandagliare la realtà, a trovare le crepe e aprire ferite. Era la cosa che sapeva fare meglio. Infilarsi dentro le pieghe di un dolore, di una zona d’ombra e scavare nel buio. Tirare fuori il peggio, far emergere il pus maleodorante, analizzare i fatti per trovare la verità. Da quella creava le sue storie, piene di sfumature del mondo. Di voci, di sussurri, di pensieri che arrivavano dalla strada, di sensibilità, del gusto del dettaglio, dei rumori inascoltati. Come spiriti che serpeggiano leggeri e con cui solo lei poteva parlare.
Non si sarebbe mai abituata a quel regalo. A vivere di una passione. Ancora oggi quando cominciava un nuovo romanzo, sentiva ogni muscolo del suo corpo tendersi. Si chiudeva nel suo studio, accendeva l’incenso, le candele e lasciava che le voci si avvicinassero. Intorno solo i suoi libri, quelli che non avrebbe saputo scegliere, che aveva portato in giro da un trasloco all’altro. Le sue memorie, testimonianze di notti insonni, compagni di viaggio e di umori, spesso la via di fuga dalla propria vita. Tra le pagine aveva trovato alternative alla sua vita, si era inventata mondi paralleli, condiviso dolori e attraversato passioni sconosciute, epoche diverse. Da quelle pagine ne era venuta fuori più forte. Come le aveva scritto il suo amico Dino: “Tu sei molto di più, hai una visione del mondo molto più aperta, hai tanto letto e hai tanto imparato, dai libri e dalla vita. Sei vera, non te lo dimenticare mai, in un mondo di finti. Così ti consiglio di vedere sempre il bene che c'è dentro te stessa, pur subendo le ferite profonde e dolorose della vita. I rigori li sbaglia solo chi ha il coraggio di tirarli, non dimenticarlo mai”.
E Angelica di rigori ne aveva tirati e sbagliati. Non si era mai tirata indietro.
Aveva quasi quarant’anni, anche se continuavano a dargliene di meno. Sarà stata per la sua aria da ragazzina dispettosa, che attraversa il mondo con coraggio sfacciato.
Il profumo di tuberosa, la vaniglia sulla sua pelle. Capelli castani, dai riflessi ramati, mossi con alcuni riccioli scolpiti, mai pettinati e mai asciugati, pieni di sole e sale. La pelle dorata, morbida e abituata al sole. Le mani veloci, che accompagnavano i movimenti, abili e affascinanti, protagoniste di un continuo balletto.
Disegnavano movenze, alzavano i capelli, spostavano ciocche ribelli. Mentre i suoi occhi ridevano, sempre, anche quando raccontava di storie tristi, anche quando si velavano di malinconia. Era così , aveva avuto modo di riesaminare il suo passato, di rendersi conto di chi fosse nella sua essenza.
Quando riusciva a lasciare da parte la crudeltà verso se stessa, avrebbe potuto decidere come avrebbe voluto essere negli anni che le rimassero da vivere.
Si era appropriata del motto di una amica scomparsa: “Si ha solo quello che si dà” e aveva scoperto, sorpresa, che è la pietra angolare della sua gioia.
Ubbidire alla massima “ Dare fino a quando non fa male”. Lo faceva in ogni cosa, nel lavoro, nell’amicizia, nella famiglia che avrebbe voluto tribù, ma che non lo era. E allora provava a incrociare gli affetti, a far conoscere e incontrare le persone che amava, per costruirla la tribù. Le piaceva che ci fosse come un cerchio spirituale e d’affetto intorno. Come uno di quei riti ancestrali delle popolazioni africane o dell’America Latina.
Lei era la sacerdotessa, a lei correvano per consigli, lucidità e affetto. I suoi amici glielo dicevano spesso che era un porto. C’era sempre una tazza di the, un bicchiere di vino e il suo orecchio attento. Aveva un cuore grande. Incerottato, anestetizzato, silente, ma aperto agli altri. Nonostante tutto. Nonostante i tanti amori falliti.
Quando si era separata, si preparò a camminare da sola, perché aveva pensato che sarebbe stato impossibile trovare un altro compagno di vita, con le stesse complici affinità.
Era una persona complessa, autoritaria, indipendente, legata alla sua famiglia tribù, ai suoi amici, con un lavoro difficile da spiegare, che le imponeva di essere sociale, di parlare e stare attenta e insieme un altro che richiedeva solitudine e rifugi.
Non era facile da sopportare. Certo aveva le sue virtù. Per esempio non richiedeva molta manutenzione: era sana, affettuosa. Dicevano fosse divertente, che la gente non si annoiava con lei. Forse lo era, oggi leggeva il suo essere introversa e solitaria come uno dei tratti predominanti del suo carattere.
Questo stesso essere l’aveva messa davanti a molti bivi e tanti fantasmi.
Non riusciva a dimenticarli, li conservava nel cuore, bastava perdersi per un attimo e poteva ascoltare alcune parole. Chissà perché riusciva solo a sentire le più dure. Quelle le frantumavano ancora l’anima, la distruggevano in un milione di piccoli pezzi.
Il suo coraggio, i suoi sensi la conducevano avanti, provava, rischiava, ma c’era sempre un punto in cui tornava al silenzio. Si fermava e riascoltava . Ma chissà perché erano le frasi crudeli quelle che ritmavano come tamburi impazziti.
Ci aveva provato, una volta, un’altra ancora. Aveva concesso ad ogni uomo nuovo un’altra possibilità. Si rimetteva in gioco, donava loro la sua allegria, il coraggio, la sua forza e loro continuavano a deluderla. Implacabilmente. Poi recuperava, come una formica che si prepara all’inverno, briciola dopo briciola, prendeva il meglio di ogni relazione, la trasformava. Diventavano un punto di riferimento, chiedeva loro un abbraccio nei momenti più duri. Eppure certi giorni, si chiedeva se sarebbe mai arrivato il miracolo: trovare un uomo che la sopportasse.
A cui non dover spiegare i contrasti, il bianco e nero della sua anima. Che potesse capire l’abisso in cui era capace di scendere e insieme la sua ingenuità. Quanto contasse per lei la scrittura. Quanto fosse ancora possibile ferirla. A volte pensava che non sarebbe mai finita e che l’insegnamento della vita era questo: essere capace di provare tanto dolore e poi da quello trovare l’ispirazione per le sue storie, rinascere attraverso queste. Credere, ricominciare e cadere ancora. Come un cerchio infinito.
Seduta al tavolino di un caffè, con la primavera che sbocciava. I raggi di sole le attraversavano gli occhi, donandole una luce speciale. Osservava il mondo intorno, alla ricerca di un dettaglio da cui ripartire. E mentre si perdeva nei sotterranei bui della sua anima, arrivò. Come un profumo di zagara o di fresie, che d’improvviso ti ricorda che la natura rinasce e puoi farlo anche tu.
All’angolo della strada, davanti al caffè all’aperto, c’era un signore maturo, con l’aria del gentiluomo d’altri tempi. Capelli bianchi, occhi azzurri, liquidi e sfuggenti. Le ricordavano altri occhi che aveva conosciuto e amato.
Quegli occhi così vividi nel ricordo, così presenti su di lei, vicini ieri e lontani oggi.
Occhi che si nascondevano, che aveva lasciato fuggire, che non aveva inseguito, perché ognuno fa le sue scelte.
Quell’uomo timido, elegante nel suo vestito blu, aveva una rosa gialla in mano.
Immaginò subito la sua storia, era un gioco che faceva sempre. Dovunque.
Era lì con le sue speranze, vincendo l’imbarazzo e il senso del ridicolo, per conoscere una donna. Appuntamento al buio. Magari si erano conosciuti su Internet, oppure non si erano mai nemmeno scritti o parlati. Forse una lettera, la risposta ad un annuncio. Un modo per proteggersi dalla solitudine che incalza, per cercare di colmare il vuoto del silenzio. Per non pensare alle giornate sempre uguali, alla macchinetta del caffè per una tazza, alla spesa al supermercato. A trent’anni sei single, a settanta sei inesorabilmente solo.
Non ci sono parole meno dolorose.
Ma quell’uomo voleva qualcosa di più, era lì dritto su stesso, con una grande dignità e un’infinita dolcezza. Pronto a chiedere ancora alla vita.
Senza difese, senza barriere.
Avrebbe voluto abbracciarlo, dirgli che sarebbe andato tutto bene, che avrebbe trovato un pezzetto dei suoi sogni.
Sentì che se poteva sperare lui, doveva ricominciare a farlo anche lei.
Quel signore era come un segno del destino, avrebbe dovuto accettare le coincidenze. Doveva dire sì all’invito che le aveva rivolto un amico ritrovato dopo tanto tempo. L’aveva guardata come un bambino disarmato, con un’energia disperata, con occhi profondi. Dentro aveva letto qualcosa, non era ancora certa di cosa. Però aveva uno strano istinto. Quello della sacerdotessa, degli spiriti dei protagonisti delle sue storie, dell’inconscio selvaggio delle donne. Anche se ogni tanto faceva fatica a ricordarsi d’esserlo. Fabrizio era un uomo intelligente, di questo era certa. E aveva negli occhi un miscuglio di ambizione e malinconia che lei stessa conosceva bene. Insieme alla tristezza.
Sapeva bene che la tristezza non ti abbandona mai del tutto, rimane sotto la pelle: senza tristezza oggi non sarebbe quella che è e non potrebbe riconoscersi allo specchio.
Tristezza, non un sentimento paralizzante ma piuttosto consapevolezza delle perdite e delle difficoltà che tingono la realtà. Frequentemente le sembrava di dover sistemare il carico per andare avanti senza cadere. C’era in lei molto disordine, spesso aveva come la sensazione di trovarsi sempre in mezzo alla tormenta, pronta a serrare porte e finestre affinché il vento della disgrazia non rada tutto al suolo.
Lui le ricordava se stessa. Questo l’attirava e la disorientava, guardarsi attraverso gli occhi di qualcun altro, leggere nello sguardo di un estraneo le combinazioni della tua anima.
La spaventava e insieme l’eccitava. Forse avrebbe dovuto compiere lo stesso atto dell’uomo con la rosa gialla. Scegliere di tirare un nuovo calcio di rigore.
Poi pensò alla frase finale di un suo libro: “Non c'è mai un'unica vita: c'è quella che ci viene data, poi ci sono le sue rovine e quell'altra che sappiamo ricostruirci sopra. E' la seconda, ad appartenerci”.
Le parole come sempre le vennero in aiuto, spiriti buoni della sua vita, sia nella prima che nella seconda.

lunedì 14 luglio 2008

Il mare

"Sai cos'è bello, qui? Guarda: noi camminiamo, lasciamo tutte quelle orme sulla sabbia, e loro restano lì, precise, ordinate. Ma domani, ti alzerai, guarderai questa grande spiaggia e non ci sarà più nulla, un'orma, un segno qualsiasi, niente. Il mare cancella, di notte. La marea nasconde. È come se non fosse mai passato nessuno. È come se noi non fossimo mai esistiti. Se c'è un luogo, al mondo, in cui puoi pensare di essere nulla, quel luogo è qui. Non è più terra, non è ancora mare. Non è vita falsa, non è vita vera. È tempo. Tempo che passa. E basta."
Oceano Mare di Alessandro Baricco

Per te che senti la mancanza del mare, per te che mi chiami sempre Primavera, che sostieni che sono la brezza marina, che adori i miei occhi perché s’illuminano e contagiano gli altri, che mi riempi la vita di parole e affetto, che ci sei sempre..
Per te che scrivi: “Tu sei bravissima a prenderti cura degli altri. Ora hai bisogno che qualcuno si prenda cura di te. Ed è difficilissimo prendersi cura di qualcuno come te, perché tu sai cosa significa, sai quello che sei disposta a fare e che fai per prenderti cura di qualcuno, ed ogni virgola, ogni carezza, ogni gentilezza ti manca.”
foto di mr.t-80

venerdì 11 luglio 2008

il labirinto

Si può decidere di abbandonare, di non credere, di preferire il labirinto, di vagare nel limbo. Basta solo imboccare uno dei due bivi.
Sinistra o destra, entrambi tortuose e impervie. Nessuna autostrada nella mia vita, non l’avrei amata. Scogliere a picco sul mare, frastagliate e pericolose, buone per un suicidio romantico e melodrammatico. Così ho scelto di vivere, di raccontarmi, di pensare.
Sempre attraverso sentieri tortuosi.
Sempre attraverso parole sinuose e curvilinee. Piene di sguardi e occhi, di labbra e baci, di corpi che si cercano e di allontanano, di mani che esplorano il mondo contenuto nella pelle di un altro. Di esseri umani che non si comprendono, si cercano e si scrutano, si toccano e si evitano, si feriscono e si amano.
Parole per me, per chi è stato e per chi ci sarà domani. Per chi non ci sarà più e forse non è mai entrato. Per le porte immaginarie da aprire e per orizzonti da guardare, per i tramonti che amo e le malinconie che mi appartengono come le lentiggini sul viso, come il sorriso di quando ero bambina e come i sogni che non riesco a smettere di sognare.

Foto Labyrinth di Fotorita

martedì 8 luglio 2008

Pezzi di storia

Alcune persone credono che senza storia, le nostre vite non sono niente. Ad un certo punto, tutti noi dobbiamo scegliere. E’ difficile non essere spaventati dal nostro passato.
La nostra storia è ciò che ci forma, ciò che ci guida. La nostra storia riaffiora volta dopo volta dopo volta. Quindi dobbiamo ricordare... che a volte la storia più importante è la storia che costruiamo oggi.

Foto Blow up di Fotorita

giovedì 3 luglio 2008

Ritorno all'infanzia

Le cose che il bambino ama
rimangono nel regno del cuore
fino alla vecchiaia.
La cosa più bella della vita
è che la nostra anima
rimanga ad aleggiare
nei luoghi dove una volta
giocavamo.

Kahlil Gibran

foto Film di bernardo garden creek